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Compensi degli amministratori di società per azioni: presunzione di onerosità del mandato gestorio e limiti all’esclusione e alla rinuncia al compenso (Cass. Civ., Sez. VI, 3 ottobre 2018, n. 24139)

Postato il 10 Ottobre 20188 Ottobre 2018 da Alessandro De Nicola

In materia di remunerazione degli amministratori di società per azioni, l’art. 2389, comma 1, c.c. prevede che “i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea”. Non è tuttavia necessario che i membri dell’organo gestorio vengano remunerati con un compenso attribuito in funzione della carica ricoperta e delle attribuzioni assegnate, per quanto, come regola generale, si debba presumere che il rapporto negoziale fra amministratore e società abbia carattere oneroso (applicandosi “la norma dell’art. 1709 cod. civ. dettata con riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile anche alla materia societaria”). Infatti, come chiarito dalla Suprema Corte, se, da un lato, “con l’accettazione della carica, l’amministratore di società acquisisce il diritto a essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli”, dall’altro, tale diritto può certamente essere escluso. La gratuità dell’incarico può derivare, tuttavia, “unicamente da una apposita previsione dello statuto della società interessata o da una apposita clausola del contratto di amministrazione”. Inoltre, salvo il caso dell’esclusione da parte della società, il diritto al compenso può essere oggetto di rinuncia da parte dell’amministratore, trattandosi di un diritto disponibile: “l’effettivo esercizio di una simile facoltà viene, secondo i principi, a inquadrarsi nello schema generale della remissione del debito di cui alle norme degli artt. 1236 ss. cod. civ.”. A questo proposito, la Corte di Cassazione ha chiarito che tale rinuncia può discendere anche da un “comportamento concludente”, “però, per leggere in termini di rinuncia un comportamento non sorretto da scritti o da parole o da altri codici semantici qualificati, occorre comunque che lo stesso faccia emergere una volontà oggettivamente e propriamente incompatibile con quella di mantenere in essere il diritto”, precisando altresì che “un comportamento solo omissivo non può integrare gli estremi di una rinuncia tacita”.

Cass. Civ., Sez. VI, 3 ottobre 2018, n. 24139

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