“Le azioni proprie sono da sempre viste con particolare cautela dal legislatore, in quanto esse hanno influenza, da un lato, sulla struttura finanziaria e sull’effettività del capitale […]; dall’altro lato, quanto agli equilibri interni di potere, l’azionista di maggioranza mediante le azioni proprie potrebbe conquistare una posizione di controllo assoluto, mentre l’azionista di minoranza potrebbe bloccare le decisioni di una maggioranza inferiore alla metà più uno del capitale sociale”. In ragione di ciò la legge prevede che il diritto di voto incorporato nelle azioni proprie sia “sospeso” (art. 2357-ter, comma 2, c.c.). Per regolare tale fattispecie e disciplinare, in particolare, il computo delle azioni proprie ai fini del raggiungimento dei quorum costitutivi e deliberativi delle società per azioni: (i) l’art. 2357-ter, comma 2, c.c. prevede, per le società “chiuse”, che “le azioni proprie sono […] computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea”; (ii) l’art. 2368, comma 3, c.c. prevede, per le società “aperte”, che tali azioni “sono computate ai fini della regolare costituzione dell’assemblea [ma] non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione”. Come chiarito dalla Suprema Corte, quest’ultima esclusione, applicabile alle società “aperte”, permette “più agevolmente il raggiungimento della maggioranza per approvare la proposta assembleare”, non incrementando le azioni proprie l’ammontare del denominatore di tale frazione, così abbattendo il numero di voti favorevoli a numeratore necessari per l’approvazione della relativa deliberazione.