Con riferimento allo “stato di insolvenza” di un imprenditore, l’art. 5, comma 1, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare) dispone che “lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. A questo proposito, la Suprema Corte – riprendendo un proprio precedente orientamento – ha confermato che: (a) lo stato di insolvenza consiste “in una situazione di impotenza economica che si realizza allorquando l’imprenditore non è più in grato di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, in quanto sono venute meno le necessarie condizioni di liquidità e di credito”, (b) “la prova della disponibilità da parte del fallito di un consistente patrimonio azionario ed immobiliare non è sufficiente ad escludere la sussistenza dello stato d’insolvenza, né la conoscenza dello stesso da parte del terzo contraente”, (c) “l’esistenza di un cospicuo attivo, ancorché in ipotesi sufficiente ad assicurare l’integrale soddisfacimento dei creditori, non esclude infatti di per sé la sussistenza dello stato di insolvenza”. Da un diverso punto di vista, ossia quello dei segni riconducibili all’insolvenza, la Cassazione ha precisato che non possono assumere valenza decisiva “la inesistenza di protesti e di azioni esecutive in atto, né l’esistenza di bilanci che, se non rovinosi, non denunciavano una florida situazione dell’impresa poi fallita, né la concessione di ulteriore credito al debitore, non potendosi escludere che questa sia motivata dalla speranza che la medesima consenta all’imprenditore di superare la situazione di insolvenza”.