L’assunzione di talune deliberazioni sociali – come anche il verificarsi di talune situazioni di fatto – specificamente individuate dalla legge o dallo statuto comporta il sorgere, in capo ai soci che non abbiano concorso a tale accadimento, del diritto di recedere dalla società. In particolare, le modalità e i limiti applicabili all’esercizio del diritto di recesso sono disciplinati, per quanto riguarda le società per azioni, dagli artt. 2437 ss. c.c. e, per le responsabilità limitata, dagli artt. 2473 ss. c.c. Queste ultime disposizioni – a differenza di quelle riferite alle società per azioni – lasciano ampio spazio alla libertà privata, che può dettare specifiche regole sull’esercizio di tale diritto con apposite previsioni statutarie. A questo proposito, la Suprema Corte ha avuto modo di confermare che: (a) con riferimento ai termini di esercizio del diritto di recesso, “il fatto che l’art. 2473 c.c. non preveda expressis verbis un termine per esercitare il diritto di recesso, per il caso in cui lo statuto o l’atto costitutivo nulla dispongano sul punto, non costituisce […] una lacuna normativa da colmare facendo ricorso all’analogia legis”, sicché il “congruo” termine di esercizio dovrà essere determinato caso per caso, applicando il criterio della buona fede nell’esecuzione del contratto (“si dovranno bilanciare le esigenze di certezza della società, assicurandosi che l’esercizio del diritto di recesso sia riconducile temporalmente alla causa che lo ha provocato, con le esigenze dei soci di minoranza, e dunque rifuggendo termini di recesso così brevi tali da rendere eccessivamente oneroso l’esercizio del diritto”); e (b) in caso di trasformazione della società, “la disciplina applicabile […] non può che essere quella della società ante trasformazione, sia sulla base della ratio legis, in quanto sarebbe contraddittorio, nonché contrario alla buona fede, applicare la nuova disciplina imponendo al socio dissenziente che ha diritto al recesso di esserne comunque assoggettato”.