L’art. 216, comma 1, n. 1), l.f. – nel disciplinare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale – prevede che l’imprenditore dichiarato fallito che distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa, in tutto o in parte, i suoi beni ovvero espone o riconosce passività inesistenti al fine di recare pregiudizio ai creditori, possa essere punito in sede penale. La Suprema Corte si è recentemente pronunciata con riferimento alla possibilità di imputare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale all’amministratore cessato dalla propria carica, in concorso con l’amministratore a questo subentrato. La Cassazione ha infatti ricordato che, ai fini dell’integrazione del reato in oggetto, è necessario che: (i) venga dimostrato il reale contributo dell’amministratore alla condotta distrattiva, e (ii) siano individuati puntualmente i beni e le attività presenti nel patrimonio della società fallita al momento dell’assunzione della carica da parte dell’amministratore, non potendo quest’ultimo rispondere delle condotte distrattive eventualmente realizzate su detti beni prima di tale momento. In particolare, la pronuncia in parola ha affermato che è illegittimo fondare una responsabilità in capo all’amministratore per il solo fatto che non vengano rinvenuti alcuni dei beni di cui la società abbia avuto possesso in epoca antecedente o prossima alla dichiarazione di fallimento. Infatti, nell’ipotesi di subentro di un amministratore – e conseguente estromissione del precedente dalla gestione dell’impresa – “la responsabilità dell’amministratore cessato può essere affermata solo a condizione che risulti dimostrata la collocazione cronologica degli atti di distrazione nel corso della sua gestione o l’esistenza di un accordo con l’amministratore subentrato per il compimento di tali atti”.