L’art. 2383, comma 3, c.c. prevede che “gli amministratori […] sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa”. La legge non prevede tuttavia, neppure a titolo esemplificativo, cosa costituisca “giusta causa” di revoca. A questo riguardo, la Suprema Corte ha ribadito i principi di diritto ad avviso dei quali: (a) da un lato, grava “sulla società, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie”, (B) dall’altro, “la giusta causa di revoca consiste nell’esistenza di circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, siano o no provocate dall’amministratore, le quali pregiudicano l’affidamento nelle sue attitudini e capacità, ossia il ‘rapporto fiduciario’ [restando in ogni caso inteso che la] ricorrenza di esigenze di auto-organizzazione della struttura societaria, costituente un motivo di natura oggettiva non pertinente alla condotta dell’amministratore, [deve essere] invero reputata estranea alla nozione di giusta causa legittimante il recesso della società”. Con riferimento a quest’ultimo profilo, la Cassazione ha sottolineato che “in mancanza di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore, [la giusta causa di revoca] non può essere integrata dal mero nuovo assetto organizzativo del gruppo [o dalla trasferimento della partecipazione di controllo], il quale non è, di per sé, collegabile ad una rottura del pactum fiduciae”.