L’art. 513-bis, comma 1, c.p. individua l’ipotesi penalmente rilevante di illecita concorrenza con minaccia o violenza, prevedendo che “chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni”. A questo proposito, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno enunciato il principio di diritto ad avviso del quale “ai fini della configurabilità del reato di [illecita concorrenza con minaccia o violenza] è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente”. La Corte ha inoltre chiarito: (i) deve ammettersi la possibilità anche di un solo “atto di concorrenza isolato e istantaneo” oltre a quella di “un’attività continuativa di concorrenza”; (ii) il soggetto che pone in essere, direttamente o indirettamente, la condotta deve qualificarsi come imprenditore; (iii) fra quest’ultimo e il soggetto che subisce le conseguenze di tale condotta (che potrebbe anche non essere l’imprenditore concorrente) deve esistere un rapporto di competizione economica (a titolo esemplificativo: nello stesso mercato o anche a livelli economici diversi, come fra produttore e rivenditore o anche fra grossista e dettagliante); (iv) assumono rilevanza sia le condotte attive, sia quelle impeditive dell’esercizio dell’altrui libertà di concorrenza; (v) il reato in esame non può essere assorbito nel delitto di estorsione.