In materia di potere di rappresentanza degli amministratori di società di persone (società in nome collettivo e, per rinvio ai sensi dell’art. 2315 c.c., in accomandita semplice), l’art. 2298 c.c. prevede che, da un lato, “l’amministratore che ha la rappresentanza della società può compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salve le limitazioni che risultano dall’atto costitutivo o dalla procura” e, dall’altro, “le limitazioni non sono opponibili ai terzi, se non sono iscritte nel registro delle imprese o se non si prova che i terzi ne hanno avuto conoscenza”. A questo riguardo, la Suprema Corte ha recentemente avito occasione di chiarire che, al fine di determinare se un determinato atto effettivamente rientri nell’oggetto sociale, come previsto dalla disposizione richiamata, occorre “considerare rilevante il dato oggettivo della previsione dell’atto nell’oggetto sociale, senza suggerire la necessità di un accertamento caso per caso della sua effettiva strumentalità rispetto a tale oggetto”. La Cassazione ha infatti sostenuto che “nell’ottica di un bilanciamento fra le ragioni della società e quelle dell’affidamento dei terzi, [l’art. 2298 c.c.] riconosce dunque rilievo preminente al dato della formale indicazione dell’atto nell’oggetto sociale, senza rimandare ad una verifica in concreto della strumentalità, mediante un accertamento che sarebbe decisamente arduo per il terzo e che introdurrebbe elementi di persistente incertezza circa l’efficacia di singoli atti, pur astrattamente previsti nell’oggetto sociale”.