Come noto, il Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 individua il regime normativo della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica nel caso in cui venga commesso, nel loro interesse o a loro vantaggio, uno dei reati “presupposto” individuati nel Decreto medesimo. A questo proposito la Suprema Corte ha ricordato che, nel caso in cui venga commesso un reato presupposto “[i]l modello costituisce uno degli elementi che concorre alla configurabilità o meno della colpa dell’ente, nel senso che la rimproverabilità di quest’ultimo e, di conseguenza, l’imputazione ad esso dell’illecito sono collegati all’inidoneità od all’inefficace attuazione del modello stesso, secondo una concezione normativa della colpa”. In particolare, il modello “non viene testato dal giudice nella sua globalità, bensì in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione di reati della stessa specie. È all’interno di questo giudizio che occorre accertare la sussistenza della relazione causale tra reato ovvero illecito amministrativo e violazione dei protocolli di gestione del rischio”. Inoltre, nel valutare la rilevanza dell’adozione di un modello sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero della Giustizia, la Cassazione ha evidenziato che “in presenza di un modello organizzativo conforme a quei codici di comportamento, il giudice sarà tenuto specificamente a motivare le ragioni per le quali possa ciò nonostante ravvisarsi la “colpa di organizzazione” dell’ente, individuando la specifica disciplina di settore, anche di rango secondario, che ritenga violata o, in mancanza, le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza dello specifico ambito produttivo interessato, dalle quali i codici di comportamento ed il modello con essi congruente si siano discostati, in tal modo rendendo possibile la commissione del reato”.