Nelle operazioni di investimento in equity, accade non di rado che al soggetto nuovo entrante nella compagine sociale venga riconosciuta la possibilità di esercitare un diritto di exit a mezzo di un’opzione di vendita (cosiddetta put option), mirata a consentirgli di disinvestire ove insoddisfatto dell’operazione effettuata. Gli interpreti e gli operatori si sono spesso domandati se una put option così strutturata sia compatibile con quanto disposto dall’art. 2265 c.c., ai sensi del quale “è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite” (cosiddetto “patto leonino”). Superando numerosi precedenti di merito, intervenuti nell’ultimo decennio, la Suprema Corte ha avuto modo di confermare che: (a) anzitutto, per quanto l’art. 2265 c.c. sia formalmente parte del quadro normativo dettato in materia di società semplici, esso si applica alla generalità delle società, ivi incluse quelle di capitali, (b) il divieto in parola impone una “suddivisione dei risultati dell’impresa economica […] con rilievo reale verso l’ente collettivo [non riguardando] il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo”, (c) la “causa concreta” di un’operazione di investimento che preveda una simile exit è quella di garantire una particolare forma di finanziamento “atipico” e partecipativo a favore della società, (d) tale schema negoziale non implica in alcun modo un disinteresse dell’investitore verso la conservazione e l’incremento del valore della partecipazione sociale, (e) “nell’opzione put a prezzo preconcordato si assiste all’assoluta indifferenza della società alle vicende giuridiche che si attuano in conseguenza dell’esercizio di essa, le quali restano neutrali ai fini della realizzazione della causa societaria”. In conclusione, simili accordi sono leciti e meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.