L’art. 1, comma 2, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare) prevede alcune specifiche soglie dimensionali volte a determinare quali siano gli imprenditori commerciali soggetti alla disciplina sul fallimento, escludendo taluni imprenditori di “piccole dimensioni”. In particolare, l’art. 1, comma 2, lett. a), l.f. (tralasciando dunque le ulteriori soglie di cui alle lett. b) e c) della medesima disposizione) prevede che “non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila” (quest’ultima previsione è stata modificata, da ultimo, nel 2007). A questo riguardo, chiarendo il portato normativo appena citato, la Suprema Corte ha statuito che “il concetto di attivo patrimoniale deve […] desumersi dall’art. 2424 c.c., sicché ricomprende le immobilizzazioni, l’attivo circolante, le attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni, i ratei e i risconti”.