Come noto, in materia di responsabilità da reato degli enti, fra le sanzioni annoverate nel Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 figurano non solo quelle pecuniarie (strutturate secondo il sistema delle “quote”), ma anche sanzioni di tipo interdittivo, tassativamente individuate dall’art. 9, comma 2, del citato Decreto. In relazione a quest’ultima tipologia di sanzioni, l’art. 17 del Decreto prevede che “ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado”, l’ente abbia riparato alle conseguenze del reato secondo quanto puntualmente disposto da tale norma. A questo proposito, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno enunciato il principio secondo il quale: (a) nel caso in cui il giudice competente abbia disposto la revoca della misura interdittiva applicata nei confronti dell’ente, sulla base della verifica delle condizioni di cui all’art. 17 del D.Lgs. 231/2001, (b) tale evenienza non “implica affatto la rinunzia, da parte della società, a contestare la fondatezza della domanda cautelare”. Infatti, “la disponibilità a porre in essere condotte riparatorie ben può dipendere dalla primaria esigenza dell’ente di scongiurare l’applicazione di misure interdittive, implicanti la stasi del ciclo produttivo e la paralisi dell’attività economica [senza che ciò implichi in alcun modo il venir meno della] perdurante attualità dell’interesse in capo alla società a coltivare l’appello cautelare, sia per contestare l’originaria legittimità del provvedimento, sia per ottenere la restituzione delle somme versate proprio al fine di ottenere la sospensione della misura, o per la rimozione di altre possibili conseguenze dannose”. Non vi può essere pertanto alcun automatismo, dovendosi in ogni caso valutare tale circostanza nel contraddittorio delle parti.