L’art. 2634 c.c. sanziona penalmente – per infedeltà patrimoniale – “gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale”. A questo proposito, la Suprema Corte ha recentemente avuto modo di confermare un principio di diritto già sancito dalla medesima, in ragione del quale “la legittimazione alla proposizione della querela […] spetta non solo alla società nel suo complesso ma anche – e disgiuntamente – al singolo socio”. In particolare, tale conclusione trova il proprio fondamento nel fatto che “il singolo socio è persona offesa del reato di infedeltà patrimoniale, e non solo danneggiato dallo stesso, in quanto la condotta dell’amministratore infedele è diretta a compromettere le ragioni della società, ma anche, principalmente, quelle dei soci o quotisti della stessa, che per l’infedele attività dell’amministratore subiscono il depauperamento del loro patrimonio”.