Come noto, l’art. 2125 c.c. disciplina il patto di non concorrenza con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto. La Suprema Corte ha fornito alcuni chiarimenti in merito a tale istituto, in particolare: (a) “il corrispettivo del patto di non concorrenza […] non ha natura risarcitoria ma costituisce il corrispettivo di un’obbligazione di non facere”; (b) per quanto il patto di non concorrenza riguardi il tempo successivo alla cessazione del contratto di lavoro, “non è finalizzato ad incentivare l’esodo del lavoratore, né costituisce una erogazione che ‘trae origine dalla predetta cessazione’, avendo piena autonomia causale rispetto alla fine del rapporto, che è mera occasione del patto”; (c) in merito alla finalità di tali clausole di non concorrenza, esse “sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi ‘esportazione presso imprese concorrenti’ del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti”; (d) con riguardo all’estensione oggettiva di tali clausole, “devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda”, non dovendo però limitarsi “alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto”.
Cass. Civ., Sez. Lav., 26 maggio 2020, n. 9790