Pronunciandosi in merito a una “decisione [assembleare] presa unicamente da chi non è socio, né altrimenti legittimato a votare, ma che si professa come tale” (dunque con l’esclusiva partecipazione di soggetti non legittimati all’intervento, né tantomeno all’esercizio di alcun diritto sociale), la pronuncia in oggetto ha superato il dato letterale di cui agli artt. 2377 e 2379 c.c., in materia rispettivamente di annullabilità e nullità delle deliberazioni assembleari, e ha confermato che detta ipotesi deve essere ricondotta a quella (di origine giurisprudenziale e dottrinale, non legislativa) della “inesistenza”. Infatti, in un caso del genere si è in presenza di “vizi […] tanto gravi da non rendere le deliberazioni che ne sono affette semplicemente illegittime, ma addirittura inesistenti: cioè qualificando quelle ipotesi non in termini di “delibere viziate” (e quindi non conformi alla legge o all’atto costitutivo o comunque al paradigma posto nella fattispecie astratta), ma in termini di “non delibere””. Nonostante l’espressa volontà del legislatore di circoscrivere i vizi deliberativi ai casi dell’annullabilità e della nullità, la Suprema Corte ha evidenziato che “la inesistenza resta una categoria logica e non una (possibile) fattispecie giuridica: sicché su di essa è impossibile per la legge incidere in modo definitivo”. Ad avviso della Corte, si ha inesistenza della deliberazione “esclusivamente allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risulti così marcato da impedire di ricondurre l’atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare, e cioè in relazione alle situazioni nelle quali l’evento storico al quale si vorrebbe attribuire la qualifica di deliberazione assembleare si è realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o di fasi essenziali non permetta di scorgere in esso i lineamenti tipici dai quali una deliberazione siffatta dovrebbe esser connotata nella sua materialità”.