In materia di annullabilità delle deliberazioni assembleari, da un lato, per le S.p.A., l’art. 2377 c.c. prevede che “le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti [quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il cinque per cento nelle altre], dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale”; dall’altro, per le S.r.l., l’art. 2479-ter c.c. prevede che “le decisioni dei soci che non sono prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo possono essere impugnate dai soci che non vi hanno consentito, da ciascun amministratore e dal collegio sindacale”. A questo riguardo, la Suprema Corte ha ribadito il principio ad avviso del quale “la perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale lascia permanere la legittimazione ad esperire la azione di annullamento”, se non addirittura di nullità, infatti “sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all’art. 24, comma 1, cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti”.