La natura dei fondi comuni d’investimento e il rapporto che lega le società di gestione del risparmio, i fondi stessi e i loro investitori ha dato adito a dibattiti dottrinali e la giurisprudenza ha avuto modo, in alcune occasioni, di pronunciarsi in argomento. In una recente pronuncia, i giudici di legittimità hanno ribadito che (i) “[l]a soluzione che meglio sembra rispondere alle esigenze sottese alla costituzione dei fondi comuni d’investimento e che trova più solidi agganci nella relativa disciplina resta quella che ravvisa nel fondo un patrimonio separato [il che] garantisce adeguatamente la posizione dei partecipanti, i quali sono i proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo, lasciando però la titolarità formale di tali beni in capo alla società di gestione che lo ha istituito oppure [a quella che le] subentrata nella gestione”; (ii) “[o]gni attività negoziale o processuale posta in essere nell’interesse del patrimonio separato non può, perciò, che essere espletata in nome del soggetto che di esso è titolare, pur se con l’obbligo di imputarne gli effetti a quello specifico ben distinto patrimonio”. Muovendo da queste fondamentali premesse, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “Se nel corso del processo, in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscono da una società di gestione all’altra – ai sensi dell’art. 36, co. 1 d.lgs. 98/1998 – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie. La società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa. In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di gestione subentrata”.