L’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. prevede – con una formulazione assai vaga – che “hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti […] le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione”. Con riferimento all’interpretazione di tale norma, la Suprema Corte si è recentemente pronunciata in relazione al seguente caso: a seguito di una fusione, a fronte della versione statutaria della società incorporata, che consentiva di distribuire dividendi previa destinazione di almeno il 5% a riserva legale e di un ulteriore 5% a riserva straordinaria, lo statuto dell’incorporante consentiva di distribuire dividendi solo previa elevazione delle percentuali destinate sia a riserva legale (12%), sia a riserva statutaria straordinaria (40%), con aumento del tetto di accantonamento complessivo della riserva legale medesima dal 20% al 40%. I soci dell’incorporata chiedevano dunque di recedere dalla società. Poiché l’art. 2437 c.c. “risponde alla ratio di tutelare i soci di minoranza”, la Cassazione ha ritenuto spettante il diritto di recesso. Infatti, “può discutersi se con l’espressione ‘diritti di partecipazione’ si abbia a intendere anche i diritti amministrativi; e un’interpretazione restrittiva può anche portare a escluderlo; ma non è dubitabile che l’espressione si riferisca in ogni caso ai diritti patrimoniali, perché tali sono, nella società di capitali, quelli implicati dal diritto di partecipazione”. Pertanto, “appare consequenziale che una modifica statutaria, relativa alla distribuzione dell’utile, rientri in pieno tra le cause legali inderogabili di recesso”. Ciò senza che possa assumere rilevanza il fatto che sino alla delibera assembleare di distribuzione dell’eventuale utile realizzato i soci abbiano una mera “aspettativa” e non un vero e proprio “diritto”.