Il Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 ha introdotto – per la prima volta nell’ordinamento italiano – uno specifico regime di responsabilità amministrativa degli enti in conseguenza della commissione di reati da parte di: (a) persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso, (b) persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno di detti soggetti. Inoltre, a norma dell’art. 5, comma 1, del D.Lgs. 231/2001, perché l’ente possa essere ritenuto responsabile, occorre che “i reati [siano] commessi nel suo interesse o a suo vantaggio”. Gli interpreti hanno a lungo discusso su quale sia l’effettivo perimetro definitorio di tale locuzione. Confermando un recente orientamento della Suprema Corte, la pronuncia in oggetto ha accolto la tesi della pubblica accusa (affrontando un caso relativo alla violazione di talune disposizione di cui al Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81) secondo cui la nozione di “vantaggio dell’ente” può consistere anche “nel risparmio di spesa dovuto al mancato impiego delle risorse economiche necessarie per conformare l’attività produttiva alle norme precauzionali (nella specie: omessa adozione di attrezzature appropriate alle condizioni d’impiego e allo stato dei luoghi, omessa formazione adeguata al dipendente in merito ai rischi riferiti alla specifica mansione e fornitura di dispositivi di protezione individuale, ed inoltre omessa cooperazione con la società [incaricata dell’attuazione] delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa”. Inoltre, il Tribunale di Pavia ha confermato, con riferimento all’“interesse dell’ente”, che quest’ultimo non deve essere inteso in senso soggettivo, bensì oggettivo, ossia “in relazione all’interesse dell’impresa allo svolgimento dell’attività”.