Il legislatore penalistico equipara, sotto molti profili, l’amministratore “di fatto” a quello “di diritto”, al fine di evitare che, pur a fronte di un corrispondente ruolo svolto in concreto, risultino applicabili norme (e sanzioni) differenti. A questo riguardo, la Suprema Corte ha ricordato che può parlarsi di tale figura solo nel caso in cui si sia in presenza dell’“esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare”.