In materia di corporate governance e controlli interni delle società quotate, la Corte di Cassazione ha recentemente avuto occasione di ribadire alcuni principi, già da tempo affermati dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare: (i) occorre considerare cogenti per la società le norme di autodisciplina previste da disposizioni interne, anche se più stringenti rispetto alle disposizioni generali contenute in altre fonti in quanto, “nel momento in cui la società, all’esito di una scelta del tutto libera, decide di adottare norme di condotta aziendale e di estrinsecare tale decisione al mercato, è infatti vincolata alla loro osservanza, rappresentando la scelta di cui sopra una volontaria autolimitazione da parte dell’operatore del mercato”; (ii) i compiti di controllo posti in capo al collegio sindacale non sono assimilabili a quelli del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, posto che, mentre a quest’ultimo spetta un controllo “sostanzialmente limitato alla regolarità del bilancio e dei conti ad esso presupposti”, al collegio sindacale sono affidati compiti di controllo maggiormente incisivi e stringenti “perché avent[i] ad oggetto, in termini generali, la corretta gestione della società, non soltanto sotto il profilo amministrativo-contabile, ma anche con riferimento alle scelte gestionali, alla loro coerenza rispetto allo scopo sociale, alla condivisibilità delle singole operazioni poste in essere dal CdA e dagli altri organi di gestione della società”; e (iii) non è possibile ricondurre alla disciplina penalistica le sanzioni pecuniarie irrogate dalla CONSOB (diverse da quelle di cui all’art. 187-ter TUF) quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, “né [tali sanzioni amministrative] pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, tanto con particolare riferimento al problema del ‘ne bis in idem’ tra sanzione penale e amministrativa quanto con riguardo al procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 195 TUF”.