Come noto, l’art. 2621 c.c. punisce penalmente i fatti di false comunicazioni sociali, ossia le condotte in cui gli esponenti di una società non quotata (amministratori, sindaci, liquidatori, direttori generali, ecc.), al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, espongono nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore. Pronunciandosi sulla portata di questa norma, la Corte di Cassazione ha sostenuto che lo “storno di debiti tributari con conseguente iscrizione del ricavo da sopravvenienza attiva” a seguito di una pronuncia giudiziale favorevole alla società, ma non passata in giudicato, “gener[a] fittiziamente un utile anda[ndo] a incrementare il patrimonio netto” (nel caso di specie, la pronuncia veniva riformata in un successivo grado di giudizio, a svantaggio della società, imponendo una rettifica che, nei fatti, non era stata eseguita). La pronuncia in oggetto ha altresì chiarito che “I soci di minoranza sono certamente legittimati alla costituzione di parte civile nel processo penale per il reato di falso in bilancio, trattandosi dei principali destinatari (e diretti interessati) delle informazioni e comunicazioni contenute nel bilancio”.